TIPOLOGIA: ex ospedale psichiatrico
STATO DEI LUOGHI: fatiscente/molto fatiscente
MOTIVO ABBANDONO: dismissione a seguito legge "Basaglia"
INTERESSE: fotografico/storico
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Sono le ore 15 di un afoso sabato di fine aprile. Il cielo è velato ed a tratti si annuvola, minacciando pioggia. Siamo fermi in auto all'uscita della super strada che da Napoli porta al Lago di Patria, all’altezza di Parete in attesa di due amici che ci accompagneranno in questa prima esplorazione. Era molto tempo che volevamo visitare questo luogo così carico di storia e di umana sofferenza. Percorrendo Via Linguiti ci appare all'improvviso la facciata con la chiesa, il nucleo conventuale originario del complesso ex manicomiale della “Maddalena”. Ci sembra quasi di incontrare un vecchio amico tanto ci è familiare l’immagine di questo decadente, meraviglioso edificio. L’enorme complesso dell’ex manicomio di Aversa si sviluppa su un area di ben 170.000 mq , di cui 70.000 mq di superficie edificata. Da quel primo problematico sopralluogo, siamo tornati più volte a visitare questo enorme complesso ed è sempre stato come entrare per la prima volta. Le foto che vedrete qui di di seguito sono il frutto di più esplorazioni.
LA STORIA
Ripercorriamo brevemente la storia di uno dei manicomi più famosi del mondo.
Il Manicomio di Aversa ha avuto molti nomi: Pazzeria degli incurabili, Reale Casa de’ matti, Reale manicomio della Maddalena, Real Ospedale Psichiatrico di Aversa, Ospedale psichiatrico S. Maria Maddalena (ultima denominazione). La sede manicomiale del Regno era ubicata nel cinquecentesco Ospedale “degli Incurabili” di Napoli, il primo ospedale in senso moderno d'Europa, che aveva all'interno anche una sezione dedicata ai malati di mente chiamata senza mezzi termini “Pazzeria” (1519). Già in età borbonica ci si accorse della sua inadeguatezza e la necessità di creare degli spazi appositamente attrezzati e configurati. Fu, tuttavia, il Re di Napoli Gioacchino Murat che nel 1813 con un Regio decreto mise mano alla questione e fondò le “Reali Case de’ matti”.
Il fatto che molte di queste Case fossero ospitate in antichi conventi e ne mantenessero la struttura e l’aspetto non è un caso. La loro creazione coincise con un periodo di grandi espropri di possedimenti ecclesiastici. Murat stesso nel 1809 nel quadro di una riforma di ammodernamento dello Stato confiscò più di un centinaio di monasteri. La loro destinazione ad uso civile rimase anche dopo la fine del periodo Napoleonico e la cd. “Restaurazione”. Aversa non fece eccezione ed il primo nucleo fu sistemato nel confiscato convento della Maddalena.
La parte più antica dunque coincide con un antico convento risalente all’epoca angioina (1269) insistente a sua volta su una preesistenza religiosa. Del 1430 è la costruzione del bel chiostro, ampliato poi da Angelo Orabona, che vi aggiunse il pozzo marmoreo con lo stemma del casato, e fece affrescare le volte dei portici. I Francescani vi risiedettero fino al Marzo del 1813, anno della conversione in manicomio.
Dunque, con l’avvento dei francesi la “pazzeria” viene smantellata e creato il primo luogo deputato esclusivamente alla cura e al ricovero dei malati di mente. Inizialmente, la Maddalena si specializzò nella cura con metodi non repressivi, attraverso il cd. “Trattamento morale” messo a punto da due grandi alienisti francesi: Jean Etienne Dominique Esquirol e Philippe Pinel. I folli erano curati con una organizzazione di vita che era fatta di regole ed orari, ma anche divertimenti e svaghi, occupazioni in attività varie come ascolto di musica, attività teatrali etc. Oggi potremmo dire un percorso di “socializzazione”. Tutto ciò era davvero rivoluzionario se si pensa che i folli erano curati con salassi, purghe “per permettere l’evacuazione delle parti folli del sé”, bagni gelati, punizioni e contenzione. I Borbone, una volta tornati sul trono dopo gli eventi rivoluzionari, non cancellarono questi metodi curativi intuendone la portata rivoluzionaria ed, anzi, ne fecero un vanto del Regno in tutta Europa, facendo assurgere Napoli a Capitale all’avanguardia nella cura delle malattie mentali.
Pianta originaria disegno della facciata del corpo principale Schema dello sviluppo del complesso: 1813-2012
gentile concessione della Prof. Elena Manzo
Il primo direttore fu l’abate Giovanni Maria Linguiti, un teologo che aveva fatto degli studi “sul trattamento dei folli”. A lui si devono gli iniziali interventi di adeguamento della Casa madre che doveva rispondere ai criteri della vita dell’epoca, cercando di riproporre un surrogato di quella vita che agli internati era negata. Insieme alla rigida separazione tra uomini e donne e tra pazienti affetti da diverse patologie, da poco gravi a gravissime, si provvide a creare anche spazi ludici e di evasione. La struttura è sempre stata dotata di molto spazio verde per la salubrità e la serenità dei pazienti in linea con il metodo “morale” utilizzato nella struttura.
A partire dalla seconda metà dell’ottocento, con un nuovo direttore, Giuseppe Simoneschi, si realizzano una serie di interventi sulla struttura originaria che permisero una effettiva separazione tra pazienti affetti da diverse patologie. Dalla sua creazione alla sua chiusura, la struttura manicomiale di Aversa fu un continuo susseguirsi di ampliamenti ed aggiunte, fino ad arrivare ad un assetto finale molto diverso da quello originale. In breve tempo la Real Casa de’ matti di Aversa, primo manicomio in senso moderno d’Italia, diventò una struttura all'avanguardia in tutta Europa e, per quanto grande, lo spazio si rivelò sempre insufficiente per le continue domande di internamento. Il nuovo direttore Simoneschi, più pragmatico di Linguiti, dotò il complesso di nuovi moduli facilmente riconvertitili a seconda delle esigenze, potenziò gli strumenti di igiene e contenzione, abolì il teatro che rese in una grande sala per gli internati. Tutto cominciò ad assomigliare di più al moderno manicomio, come struttura di contenzione e internamento, a scapito dell’aspetto riabilitativo della persona.
Fu però Miraglia a delineare nel 1860 una struttura efficace di manicomio. Propose di dividere gli “alienati” in otto distinti “quartieri”, uno per ciascuna delle classi di disturbi psichiatrici individuati dal medico in base alle diverse manifestazioni della follia. Separare il tutto, poi, in due stabilimenti, uno per le donne ed uno per gli uomini, confinanti per mezzo di rispettivi giardini e comunicanti a mezzo di viali interni. L’architetto Nicola Stassano si incaricò di realizzare il progetto, che per varie ragioni non fu realizzato se non in parte.
Sul finire del diciannovesimo secolo, divenne direttore l’Alienista Gaspare Virgilio. Cambiò totalmente la filosofia costruttiva: invece di un edificio unico si cominciò ad optare per più strutture, o padiglioni, indipendenti. Superato il concetto della concentrazione in unico edificio, la nuova struttura finì per essere per così dire “modulare”, con molti edifici più piccoli, indipendenti e distanziati tra loro, connessi solo tramite viali alberati del comune parco. Fu una scelta nata ad Aversa, ma all'interno di un congresso della Società Freniatrica, che segnerà una evoluzione comune verso questo nuovo orientamento, visibile in altri importanti manicomi, come ad esempio quello di Volterra. Nacquero nuove categorie, nuove nomenclature della follia e delle stranezze umane da raccogliere nei relativi “padiglioni”: gli sfrenati, gli agitati, i tranquilli, i semi tranquilli, i sudici etc. Nascono dunque nuove strutture che prendono nel tempo il nome da eminenti esponenti del mondo accademico: Virgilio, Chiarugi, Livi, Verga.
il Verga
il Verga
Padiglione Virgilio in una foto d'epoca Padiglione Virgilio oggi
Si arriva così, con fasi alterne, al ventesimo secolo, con un anticipo di quasi un secolo sull’istituzione dei manicomi in Italia, avvenuta con la legge n°36 del 1904, rimasta in vigore fino alla abolizione con la L. 180 del 1978, conosciuta anche come legge “Basaglia” dal nome del medico estensore della medesima. Nel 1906, a seguito della nuova citata legge del 1904, si provvide ad adeguare lo stabilimento alla nuova normativa. Nel 1910 fu nominato nuovo direttore Eugenio La Pegna. Si realizzarono opere di potenziamento degli impianti idrico e fognario, due padiglioni, il Leonardo Bianchi e il Buonomo, e si allargò l’area della colonia agricola. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale il complesso venne seriamente danneggiato ed in parte occupato dagli angloamericani che vi installarono alcune basi logistiche.
Negli anni che vanno dal dopoguerra fino agli anni settanta, si compirono molti lavori di ammodernamento. Si realizzarono i due monoblocchi: corpo A e corpo B.
Padiglione Leonardo Bianchi
LA FINE DELL’UNIVERSO DEI MATTI
Con l’arrivo degli anni settanta, il vento cominciò a cambiare con le nuove idee progressiste sulla malattia mentale e il suo modo di trattarla. Per la verità in quegli anni l’Ospedale psichiatrico delle Maddalena, denominazione (ultima) assunta dal dopo guerra, ha già un numero di pazienti molto ridotto rispetto al passato. La prima avvisaglia della fine di un'epoca fu la Legge 833 del 1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, definito: “il complesso di funzioni, strutture, servizi e attività che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini, senza nessuna distinzione di ceto o etnia, per il recupero della salute fisica e psichica”. Ma la vera rivoluzione storica, si ebbe con la legge 180 del 13 maggio 1978, meglio conosciuta come Legge “Basaglia” dal nome del medico estensore. Molti ritengono che la legge 180 abbia stabilito la definitiva chiusura dei manicomi. In realtà, gettò solamente le basi culturali e scientifiche del processo di chiusura.
In definitiva Basaglia sosteneva che: per prevenire gli abusi, il trattamento sanitario doveva essere volontario e solo in casi estremi, regolamentati dalla legge, poteva essere obbligatorio; il malato doveva essere collocato in ospedale solo in situazioni di emergenza, non gestibili dal malato o dalla famiglia, e restarvi solo per il periodo di tempo necessario. Inoltre, previde il divieto di costruire nuovi manicomi e la graduale chiusura di quelli esistenti.
Dunque, se la legge Basaglia proibì la costruzione di nuovi manicomi, non previde la chiusura di quelli esistenti tout court. Il processo fu molto più lento e doloroso. Si può dire, un processo non ancora terminato. Si trattava di ripensare al tipo di struttura e adeguare quelle esistenti. Solo nell'aprile 1994 venne approvato il Progetto Obiettivo Tutela Salute Mentale. La novità consisteva nella partecipazione dei pazienti e dei familiari alle scelte terapeutiche, con preferenza verso interventi ambulatoriali e domiciliari, accompagnati da attività che favorissero sbocchi lavorativi ed il reinserimento nella società.
All’interno dell’edificio principale di Aversa vennero collocate alcune USL (oggi ASL), mentre nei padiglioni agibili servizi socio-sanitari quali medicina legale, DSM, SERT, tutt'ora presenti. Fu istituito l’archivio storico dell’ex Ospedale psichiatrico, con il suo intero patrimonio librario.
L’Ospedale psichiatrico fu svuotato nel 1998 e chiuso nel 1999. E' la fine di un'epoca di cui si doveva preservare la memoria e le testimonianze più fulgide. Tutto invece sembrava destinato a cadere nell'oblio.
OGGI
A quasi venti anni dalla chiusura, l’Ex Ospedale Psichiatrico di Aversa versa in uno stato di grave e totale abbandono. Il corpo originario, quello più antico, è ormai fatiscente, con segni di crolli e cedimenti strutturali preoccupanti. La splendida chiesa ed il chiostro sono duramente segnati dal tempo, dall'incuria e dai ripetuti atti vandalici. La chiesa, in particolare, non ha più il tetto ed il pavimento è ormai invaso da una pervicace vegetazione cresciuta quasi ad altezza uomo. Gli altari laterali in pregiato marmo policromo cadono a pezzi, o sono stati in alcuni casi "fatti a pezzi", e le tele soprastanti sono solo un ricorso. Anche i confessionali sono a brandelli sepolti dalle macerie e dalla vegetazione, tranne uno che, come un uomo che affoga, affiora tra le piante che cominciano ad avvilupparlo. La vegetazione selvatica ha invaso anche il chiostro e tutti i corridoi e porticati del piano terra.
Non vogliamo entrare nel merito di quello che si doveva fare e non è stato fatto o di quello che si potrebbe fare: sono questioni di politica e/o di amministrazione che non ci riguardano, né tanto meno abbiamo le competenze dovute per potere esprimere pareri tecnici su recuperi e quant'altro. Quel che è certo è che fa davvero male al cuore vedere un patrimonio storico artistico di così rara bellezza sgretolarsi lentamente ed inesorabilmente. Inoltre, nei padiglioni meglio conservati vivono diverse famiglie e individui rintanati nei più reconditi anditi dell’enorme area. Non si vedono, ma si possono notare segni di attività umane quotidiane, come presenza di rifiuti freschi e panni appesi ad asciugare.
E’ difficile raccontare la bellezza degli scaloni monumentali, delle architetture rinascimentali, degli affreschi che si sono salvati senza sentirsi rattristati. Forse saremo tra gli ultimi ad aver potuto vedere ancora qualcosa di questi luoghi.
Riutilizzare l’aera si può e si potrà, ma recuperare tutto quello che si è perduto è impossibile.
Come appassionati di “esplorazioni urbane”, non possiamo fare altro che raccontare e mostrare con immagini la bellezza ed il mistero di quello che lentamente muore, sperando che qualche cosa possa cambiare prima che sia troppo tardi. Ci auguriamo che per Aversa non sia troppo tardi, come per altre meraviglie di cui abbiamo raccontato.
IL CORPO CENTRALE: L'ANTICO CONVENTO
IL "VIRGILIO"
IL "LIVI"
GLI SPAZI DELLA FOLLIA
Fortunatamente, non è tutto incuria e distruzione. Una notizia positiva c'è ed è che il mondo accademico è venuto in aiuto di questo e di altri giganti moribondi, innanzitutto con un efficace ed importante recupero della memoria storica e dei documenti..
“Il progetto Gli spazi della Follia nasce da un accordo tra la Direzione Generale per gli Archivi del MiBAC e una rete nazionale di Atenei, allo scopo di divulgare i risultati del progetto di ricerca, finanziato dal MIUR nell’ambito del programma PRIN 2008, dedicato alla conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio storico-architettonico degli ex complessi manicomiali. Obiettivo del Portale è restituire alla memoria collettiva una pagina rilevante della storia dell’architettura e della città (ma anche della medicina, della società, delle istituzioni, della mentalità) e fornire, tanto agli studiosi che a soggetti pubblici e privati interessati alla tutela e valorizzazione, strumenti di conoscenza su un patrimonio culturale da considerare come importante risorsa sociale.” (dal portale istituzionale)
Per chi volesse approfondire la storia dei manicomi, consigliamo il libro I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, ed. Electa della Prof.ssa Cettina Lenza (copertina nella foto a fianco)
Un doveroso ringraziamento e la nostra gratitudine vanno alla coordinatrice nazionale del Progetto, Prof. Cettina Lenza (SUN Seconda Università di Napoli), ed alla Prof. Elena Manzo, per la consulenza storica e per averci concesso di publicare alcune foto e documenti di archivio.
L'esplorazione è stata fatta nel rispetto dei luoghi e degli eventuali cartelli di divieto presenti. Nessuna intrusione in luoghi protetti da chiusure, barriere, cancelli o in presenza di divieti è stata fatta. Nulla è stato toccato e/o prelevato. Inoltre, non aveva scopi commerciali ma solo di conoscenza e documentazione.
IL PRESENTE ARTICOLO NON COSTITUISCE IN NESSUN MODO UN INVITO O UN INCORAGGIAMENTO ALL'ESPLORAZIONE. I LUOGHI SONO FATISCENTI E PERICOLOSI. CHI LO FACESSE, SE NE ASSUME OGNI CONSAPEVOLE RISCHIO. AD OGNI BUON CONTO RICORDATE SEMPRE LA REGOLA "LEAVE ONLY FOOTPRINTS AND TAKE ONLY PHOTOS", LASCIATE SOLO IMPRONTE E NON PRENDETE NULLA SE NON IMMAGINI.
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