CARLO ROSSI FILANGIERI, L'ARCHEOLOGO GENTILUOMO


Carlo Rossi Filangieri nacque a Torre Annunziata il 4 novembre 1871 da Giovanni Filangieri e Marianna Rossi. Primogenito di due figli, ebbe una infanzia travagliata e dorata allo stesso tempo, per le amorevoli cure parentali riservategli dal padre.

Il Principe Giovanni Filangieri era sposato con Antonia Corsi, baronessa di Turri e Moggio ma da lei non era riuscito ad avere figli nonostante desiderasse li ardentemente e fosse ormai anche avanti negli anni. Aveva già 50 anni ed era già sposato da ben 17 anni quando acquistò il Forte Oncino a Torre Annunziata e vi si trasferì. Questa sua pena è confermata da taluna corrispondenza con suo Zio Carlo Filangieri Principe di Satriano; in una lettera del 23 luglio 1862 da Ponte a Serraglio vicino Lucca scrive: “sono sempre fervidi i miei voti perché il cielo vi faccia presto lieti di una bella e numerosa prole”. Nel periodo in cui visse a Torre il Principe ebbe una frequentazione galante con una donna molto più giovane di lui, e si dice anche essere molto bella, di nome Marianna Rossi; di ciò esiste anche traccia epistolare.  Da questa relazione clandestina nacquero due figli, Carlo e Teresa, ma soprattutto l’erede maschio tanto desiderato e così tanto rilevante nell’ottica di un gentiluomo di metà ottocento discendente di una importante casata. Così, Carlo poté avere i migliori precettori, studiare nei migliori collegi ed accademie: insomma avere tutte le cure e le attenzioni materiali possibili riservate ad un figlio così tanto atteso e desiderato, ma non poté, per ovvi motivi, godere di quella presenza paterna di cui un figlio ha bisogno. Questo ha certamente influenzato il carattere di Carlo. Brillante, risoluto, eclettico nei suoi interessi e nelle sue passioni fu uno studente modello del Collegio di Montecassino. Inviava puntuali e appassionate lettere al padre dal quale traspare tutto il suo affetto filiale, ma anche la sofferenza per il distacco e la solitudine. Cresciuto con questa sorta di benedizione/maledizione, nell’ombra di una potente e celebre famiglia, Carlo sviluppò un animo sensibile e curioso verso ogni forma di arte o attività. Nel tentativo di compiacere il genitore eccelleva negli studi ma coltivava anche molteplici interessi che si trasfusero poi anche in attività di successo e quasi innovative per quell’epoca.

A soli 25 anni Carlo perse il padre e, insieme alla sorella Teresa, ereditò la immensa fortuna del Principe Filangieri di Arianello (vedi anche link Villa Rossi Filangieri). Carlo sposò Italia Chianese, con cui era fidanzato da tempo ed alla quale fu sempre devoto. Da Italia ebbe sei figli: Pia, Giovanni, Anna, Federico, Riccardo e Teresa. La grande Villa di Torre Annunziata divenne il dolce focolare che tanto era mancato.

Carlo fu un autentico “family man”, molto legato alla famiglia e dedito alla moglie e ai figli, ma al tempo stesso fu persona acuta negli affari con partecipazioni in importanti società, come la Mazzolini & Rossi Filangieri che fabbricava paratie stagne per navi da guerra. Non era certo persona da stare "con le mani in mano" a godere del suo cospicuo patrimonio. Fu un uomo della Belle Époque, incarnando pienamente lo spirito del periodo in cui visse: colto e sensibile fu appassionato collezionista, amante dell’arte e a modo suo anche un piccolo mecenate. 

Grande viaggiatore dal carattere curioso e avventuroso che lo portò anche ad essere un apprezzato archeologo, della cui appassionata attività esiste traccia evidente negli studi sulle antichità pompeiane.

Se è vero che la nascita dell’archeologia viene fatta risalire alla metà del 700 proprio dagli scavi condotti dai regnanti napoletani nelle vicinissime Pompei ed Ercolano, fu solo nel corso del novecento che questa divenne una vera scienza che cominciò ad avvalersi di tecniche appropriate e moderne uscendo dalla approssimazione e dal pionierismo. E Carlo fu forse tra i primi ad utilizzare avanzate tecniche di scavo e di rilievo. Carlo aveva i rudimenti tecnici e la cultura appropriata per questo tipo di attività in un periodo, peraltro, in cui le “antichità” e gli scavi di ricerca ancora non avevano rilievo prettamente pubblico. Ricordiamo che la prima disposizione a tutela dei beni storico culturali in Italia arrivò nel 1909, la cd. 364/1909 o Legge Rosadi che ebbe poi attuazione solo nel 1913 con un regolamento esecutivo di 189 articoli. Seguirà molti anni dopo, nel 1939, la legge Bottai, la prima tutela organica di patrimonio culturale e paesaggistico. Tuttavia, siamo ancora in un’epoca in cui prevale il concetto di preservazione del “bello ottocentesco”, un’idea ancora puramente estetica del patrimonio storico. Le preoccupazioni sono prevalentemente di tipo nazionalista e cioè il pericolo di fuga dei reperti e dei capolavori dell’arte antica, molto richiesti all’estero; non è stato ancora maturata l’idea di “bene collettivo” come bene esclusivamente pubblico, e lo Stato può solo esercitare la prelazione di ciò che rientra nella categoria dei beni di interesse culturale.

Questo è il contesto culturale e giuridico in cui Carlo Rossi Filangieri inizia le sue avventure da archeologo.

Il territorio, ancora non troppo urbanizzato e ancora non troppo depredato dai ladri di antichità, i cd tombaroli, presenta ovunque segni di un passato lontano e illustre. Non è infrequente nei poderi dell’area vesuviana imbattersi in rovine romane o medioevali: una lapide, una colonna, una statua etc. L’idea mutuata dalle esperienze borboniche è scavare in profondità laddove vi sono segni di vestigia antiche che possano fare supporre la presenza nascosta di manufatti del passato. Questo Carlo lo fa in maniera professionale e trasparente, stendendo dei veri e propri accordi, concessioni onerose di scavo, con i proprietari dei fondi ed agendo in stretta collaborazione con le autorità, in primis la direzione del museo di Napoli dove sono ricoverati gran parte dei reperti trovati negli scavi di Pompei ed Ercolano, oggi Museo “archeologico” nazionale di Napoli (M.a.n.n.). Di buona parte di questa attività è conservata documentazione nell’archivio Rossi Filangieri (ma non solo): una fitta corrispondenza tra Carlo Rossi Filangieri e la direzione dell’allora Museo Nazionale e degli Scavi di Napoli e Pompei che copre buona parte del primo decennio del 1900; ci sono, inoltre, alcuni degli accordi per le concessioni di scavo stipulati con vari proprietari dei fondi dell’area vesuviana. In questi documenti emerge l’opera di documentazione dello stato dei luoghi e dei ritrovamenti e, altresì, gli accordi volta per volta presi sul modus operandi e sui reperti tra Carlo e gli enti preposti. In due lettere del 11 marzo e del 16 maggio 1902 si evince che Carlo aveva donato due pareti affrescate ritrovate nello scavo in contrada Centopiedi a Boscoreale al Museo di Napoli ricevendo i ringraziamenti del direttore e del ministro competente. Le cautele che si intuiscono nella risposta del responsabile che si premunisce dell’autorizzazione del ritrovatore e del proprietario del fondo per l’accesso ed il prelievo ci dà una idea del contesto storico giuridico ad inizi novecento sopra descritto.

Carlo operò nella zona vesuviana, in particolate l’area tra Pompei e Torre Annunziata. 

Particolare attenzione veniva posta al vasellame, in particolare ai bolli impressi sulle ceramiche rosse cd. Sigillate, un tipo di ceramica romana fine da mensa (ovvero destinata ad essere utilizzata come servizio da tavola). Dalla metà del I secolo a.c. le ceramiche a vernice nera sparirono gradualmente nella produzione dei paesi mediterranei, sostituite da questa nuova classe di vasellame che ebbe origine nel Medio Oriente e si diffuse poi in Italia, dove il centro della migliore produzione fu Arezzo ("aretina"). La sua caratteristica principale è una vernice rossa, più o meno chiara e la decorazione a rilievo, modellata, impressa o applicata. Alcuni esemplari portano impressi dei bolli ceramici o "sigilli", dai quali la tipologia deriva il suo nome, che riportano il nome del fabbricante.

                                corrispondenza con il Museo Nazionale degli scavi di Napoli e Pompei                                              concessione scavi Civita di Boscoreale fondo Cimmino

Quattro scavi principali attrassero l’attenzione degli studiosi e degli enti preposti, di cui esiste documentazione anche in rete: 

Scavi nel fondo Marchetti a Contrada Santa Maria la Carità a Gragnano negli anni 1900,1901 e 1904. Questa importante Villa fu oggetto di scavi clandestini nel corso dell’anno 1899. Fu poi esplorata ufficialmente da Carlo Rossi Filangieri.

"Nella regione che segna la maggiore depressione della valle del Sarno, fu restituita alla luce quest'altra grande villa rustica, invasa dalle acque latenti e coperta di deiezioni vulcaniche. Qui però le esplorazioni si potettero eseguire sempre all'asciutto e nel più breve tempo, perché, aperto intorno alla villa un sufficiente canale di raccolta delle acque, col mezzo di due potenti pompe idrovore, azionate da una macchina a vapore, si riuscì a portar via le acque nelle ore di lavoro. L'edificio di pianta quadrata, perfettamente orientato, accessibile ai carri per l'ingresso principale (pianta lettera “A”), sviluppava i suoi gruppi di fabbriche, tutti rustici, sui lati di una vasta corte centrale, (pianta lettera “B”), nella quale colonne semplici, doppie colonne congiunte mediante pilastri medi, ed in gran parte i vani d'accesso agli ambienti circostanti, erano costruiti di materiale laterizio. Accanto alla cella ostiaria, era il grande stabulum, (pianta n°2), nel quale erano ricoverati equini e bovini (se ne rinvennero gli scheletri), a servizio della vasta azienda agricola. Gli abbeveratoi delle bestie si riconoscono nella pianta alle lettere “a”, “b”, e ‘c”. Nel lato meridionale, intorno ai due atrioli (pianta C e D), si raggruppavano dormitori di schiavi e di villici, magazzini di deposito delle derrate. Si addossavano al lato occidentale dell'edificio: una spaziosa cella vinaria, “E”, disseminata di dolia; il grande torculario (mappa n.28); fra la cella vinaria ed il torculario il deposito di legname (mappa n°27). Lo scavo difatti vi rimise alla luce, e meravigliosamente conservate nella loro quasi totale integrità originaria, travi di legno in grandissimo numero, la cui fibra era stata preservata dalla corruzione dai ricchi minerali di ferro sciolti nell'acqua latente del sottosuolo. Una di quelle travi, lunga m.7, trasportata a Pompei, vi si conserva tuttora intatta, nell'atrio della “scuola archeologica”.

 Dal cortile “B” provengono i seguenti oggetti: due grandi dolia; un'anfora; scodella aretina; quattro lucerne circolari monolychni; un boccale a recipiente ovoidale; due urcei monoansati; due pignatte cilindrico-coniche; due coni di bronzo che una volta terminavano e coprivano i bracci del giogo di una grande bilancia (trutina); una boccettina quasi cilindrica; tre verghe, desinenti ciascuna da un lato in un anello e dall'altro in un uncino, d'ignoto impiego, al pari di due altri ferri ripiegati ad arco doppio (elementi di bardatura?); due scodelle con la marca, in pianta pedis, CIL. X, esternamente adorna di teste equine e rosette a rilievo, con la marca nel fondo CIL. X Cori(nthus).

Nell'atriolo “C” si rinvenne una grandissima caldaia di bronzo, che fa pensare alla manipolazione di grosse quantità di latte e quindi ad una officina casearia.

L'atrio, “D” era probabilmente un ergastulum per la presenza del ceppo per la punizione degli schiavi, ivi rinvenuto. Il robusto arnese di ferro, capace d'immobilizzare per un piede solo sino a quattordici schiavi contemporaneamente, per mezzo di chiodi, infilati nelle bandelle connesse con la sua verga inferiore, era fissato ad una trave incastrata nel suolo. Ritrovato con la chiave nella toppa della serratura, e con la verga superiore per un certo tratto sfilata, fa supporre che gli schiavi furono liberati al momento della catastrofe.

Seguono ora gli altri trovamenti, preceduti dalla menzione dell'ambiente nel quale si fecero:

“N.6”: un asse repubblicano coi tipi del Giano e della prora di nave

“No.8”: Terracotta: un'anfora vinaria; due lucerne monolychni; un urceo panciuto; due fritilli per il giuoco dei dadi.

“No.9”: un'anfora; tre urcei; una pignatta; una scodella aretina recante sotto il fondo, graffito il nome SVTOR

“No.10”: quattro anfore vinarie; una pignatta; un urceo

“No.13”: un tegame a recipiente sferico-conico, di m. 0,22 di diametro: un urceo a pancia sferica, monoansato

“No.17”: un'anfora.

Nell'ambiente “No.20”, le cui terre non furono per il passato manomesse, si raccolse un considerevole gruppo di oggetti:

- Oro: un paio di orecchini formati di una sbarretta orizzontale sormontata da un dischetto, e nei cui capi si articolano due verghette desinenti in piccole perle.

- Argento: una grossa armilla omerale, larga m.0,09, fatta di una verga che, rastremandosi ai capi, si attorciglia all'incontro dei capi stessi.

- Bronzo: un'anforetta, le cui anse sono decorate in basso da due mascherette comiche; un mestolo dalla coppa emisferica; una casseruola, sulla cui ansa, desinente in un foro semilunato, è impressa la marca Polybi; un colabrodo; un crogiuolo cilindrico; due fibbie e tre anelletti; una situla a recipiente semi ovoidale, munita di ansa ad arco, di ferro, ed esternamente protetta da fasce verticali di ferro. Insieme con questa situla, si raccolse una catena di ferro, composta di trenta maglie e desinente in un grosso anello;  una coppia di robuste urnae vinarie, le cui anse, desinenti in su in un dito umano che s'innalza e s'incurva sull'orlo, terminano in giù in uno scudo scolpito. Nell'uno degli scudi si vede Bacco nudo (meno un drappo visibile solo attraverso il torace) il quale, stringendosi col braccio sinistro al collo di Sileno, nudo, barcollante e armato del tirso, versa da un cratere, che regge con la destra, il vino nella bocca spalancata della pantera che gli saltella accanto: nell'altro scudo si vede incedere a destra, tutta nuda, meno un velo che avvolge i lombi ed è trattenuto dal braccio sinistro, una figura muliebre nell'atteggiamento della Minerva Pacifica.

 - Vetro: una boccetta alta m.0.12, semifusa dall'azione del fuoco. 

- Terracotta: due urcei panciuti, alti m.0,20 e 0,09; un bicchiere rustico, due pignattini e una tazza aretina; due lucerne monolychni, l'una delle quali ha nel disco il rilievo di una maschera comica, e sotto il fondo, in rilievo, la lettera H; due scodelle rustiche, di; un abbeveratoio da uccelli, di m.0,07 di diametro, e un fritillo ovoidale per il giuoco di dadi. (Da Notizie degli Scavi di Antichità, 1923)

Scavi nel fondo Vitiello a Contrada Centopiedi dal 31 ottobre 1901 al 18 gennaio 1902 relativi ad un edificio di antica fattura, decorato in primo e secondo stile, che conteneva molte stanze. Una di queste (n°3 sulla pianta) presentava una decorazione parietale di “Secondo stile”, con grandi colonne, un ricco fregio e una fascia di foglie d'edera tra una colonna e l'altra, simile alla parete della Casa del Labirinto. Questi dipinti, non potendo essere conservati in loco dove erano stati rinvenuti furono asportati e donati al Museo Nazionale di Napoli, dove sono ora conservati. Il luogo era vicino a quello dove ora sorge il santuario di Valle di Pompei. Il materiale eruttato dal Vesuvio nell'anno 79 arrivò anche qui e seppellì in parte l'edificio che Carlo aveva trovato. Il pavimento di una delle stanze si trovava a 5,40 m. sotto il livello del suolo e il materiale dell'eruzione del 79 formò uno strato di poco più di quattro metri (tre metri di lapilli, più di un metro di cenere e fango).  Lo scavo non fu però terminato e la casa non appare nella sua interezza sulla sua pianta. 

NOTIZIE DEGLI SCAVI, 1923


                                          AUTORIZZAZIONE AGLI SCAVI                                                                                                                 STIMA DEI REPERTI


               DONAZIONE DI DUE PARETI DIPINTE                                               AUTORIZZAZIONE AL RITIRO                                RINGRAZIAMENTO DEL DIRETTORE E DEL MINISTRO


                                  RICHIESTA DONAZIONE PER BOLLI ARETINI                                                                            AUTORIZZAZIONE A INTERRARE GLI SCAVI


                                                                                                                         VOLUMEDELLE  NOTIZIE DEGLI SCAVI IN OMAGGIO AD ITALIA IN RICORDO DI CARLO

Scavi nel fondo Prisco a Civita Giuliana a Boscoreale (oggi Pompei) dal febbraio al luglio 1903 relativa ad una Fattoria con adiacente monumento funerario. Dotata di torcularium per il vino, presentava anche un piccolo settore termale con mosaico pavimentale, alcuni cubicoli ed un triclinio. Nella villa si entrava da due porte (nella pianta A e A') con accessi dalla strada e dalla campagna. Ciascuna porta si chiudeva con due imposte di legno, montate sopra soglie di pietra vesuviana: di queste entrate, quella sulla strada che era la più nobile, (A) portava sui pilastri laterali, due grandi sfingi ornamentali in tufo di Nocera, probabilmente originariamente nel monumento funerario e poi ricollocate all’ingresso. Delle due sfingi la prima, oggi a Pompei, ha potuto essere interamente ricomposta; dell'altra è stata raccolta solo la testa. Da questo ingresso principale, coperto da un semplice tetto, provengono:

alcuni arnesi in bronzo; un piccone, una bottiglia di vetro, quattro lampade in terracotta. Nell'ambiente rustico (mappa stanza n° 1), considerato come la cella ostiaria, è stata poi rinvenuta uno strumento a canne, costituito da segmenti cilindrici di osso, con rivestimento interno ed esterno di lastra di bronzo, con tutti i fori e alcuni dei ponticelli articolati delle chiavi, conservato nel Museo di Napoli.

Il torcularium, (stanza n°2), aveva le pareti e il pavimento ricoperti di intonaco di cocciopesto ben levigato e steso su una grande vasca. Visibile (mappa lettera d) l’apertura quadrata per contenere la colonna di legno che sosteneva e articolava il tignum, la trave orizzontale di pigiatura; (mappa lettera "e") era affondato nel terreno un grande dolium in cui confluiva, grazie al pavimento sensibilmente inclinato, il succo estratto dall'uva pigiata. Ci sono molti cubicula adibiti a stanze da letto, un triclinium (stanza n°5) con una stanza (n°6) accanto nella quale è stato rinvenuto un pregevole tavolo di marmo. Un impianto termale (stanze nn°10 e 11) con bei pavimenti a mosaico.

In una grande stanza (mappa stanza n° 13) sono stati trovati sei scheletri. È in questa stanza situata verso l'ingresso che gli sventurati abitanti della Villa cercarono una via di fuga alla morte: sei corpi, tra cui un bambino più due cani, furono trovati al centro di quest'area, sepolti dal crollo del tetto.

Completa la villa un monumento funerario nel quale sono stati trovati dei busti in marmo travertino. 

La villa al termine degli scavi fu ricoperta di nuovo.

                                                             strumento musicale a canne                                                                                              mosaico                             tavolo marmo


autorizzazione e direttive per distacco mosaico



Scavi nel fondo Brancaccio in Contrada Civita Giuliana a Boscoreale (oggi Pompei) nel corso del 1904.

 

Un'altra Villa rustica, scavata nella stessa contrada Civita-Giuliana (Boscoreale) dal Carlo Rossi Filangieri nel fondo di Raffaele Brancaccio, a ovest della via vicinale Pompei-Boscoreale, circa 100 m a ovest dell'attuale edificio colonico di Raffaele Brancaccio. L'assoluta assenza di qualsiasi accenno di lusso mostrava chiaramente che sarebbe stata abitata solo da lavoratori al servizio delle fattorie circostanti. Fu costruita in opus incertum.  All’interno furono trovati: un piatto ovoidale di bronzo; due zappe e un coltello da giardinaggio; tre chiavi e i resti del piede di un mobile con rotelle modellate in osso; una bottiglia di vetro con pancia sferica e collo lungo; tre lucerne, di cui una con il rilievo di una sfinge sul disco; cinque brocche curvilinee; una coppa con manico ad anello; una coppa per bere; alcuni piatti di terracotta; tre anfore da vino; un'anfora su piede piano; un vaso contenente resti di semi di miglio. (Notizie degli Scavi, 1921, page 423)


Carlo Rossi Filangieri muore il 28 gennaio 1927 nella sua monumentale Villa di capo Oncino a Torre Annunziata, circondato dall’affetto della moglie Italia e dei suoi figli. Contribuì in maniera egregia alla scoperta di tanti siti antichi, ma anche alla crescita della archeologia e della sensibilità verso la preservazione del passato. Era il mio bisnonno.

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