MELITO IRPINO

TIPOLOGIA: paese abbandonato

STATO DEI LUOGHI: molto fatiscente - pericoloso

MOTIVO ABBANDONO: terremoto

ACCESSO: facile 

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Melito Irpino è un antico insediamento che sorgeva lungo le rive del fiume Ufita; sono ancora oggi evidenti i resti del periodo romano. Incerta è l'origine del borgo medioevale, che vide crescere Melito vecchia attorno al suo Castello, probabilmente poco dopo l’anno 1000 d.c. Le fonti storiche sono lacunose in tal senso. Un tempo chiamata Melito Irpino valle Bonito, della città antica oggi non c’è più traccia; non rimangono che vecchie foto ed il ricordo di chi ci ha vissuto. Melito vecchia era in ogni caso un bel borgo con strade lastricate di pietra ed un tipico impianto medioevale: una fitta trama di case basse, strette strade e scalinate ammassate ai piedi del suo castello. Il centro della vita era la “Piazza Vittoria”, ove si ritrovava la popolazione dopo aver assistito alla messa nella chiesa di Sant’Egidio. Di fronte, scorreva il fiume Ufita, attraversabile a mezzo di un ponte tuttora esistente. Un violento sisma che colpì tutta l’Irpinia nel 1962, ne decretò la fine. Quel che rimaneva del vecchio borgo venne, poi, completamente spianato, tranne il castello e la chiesa di S. Egidio. Va precisato, tuttavia, che l’area è potenzialmente ad alto rischio sismico dal momento che i terremoti si sono susseguiti costanti nel tempo. Questo potenziale rischio unito anche ad una notevole instabilità orografica, hanno fatto propendere per l’abbandono definitivo dell’area e la ricostruzione del nuovo insediamento su una altura più sicura, almeno dalle alluvioni. Del vecchio paese rimane solo una desolata radura tra il castello con la chiesa ed il fiume, e non è facile immaginare le cose che furono. 

Il castello 

E’ piuttosto difficile fornire una datazione precisa della fondazione del castello di Melito irpino: si sa che esisteva già al tempo della conquista normanna. Il primo riferimento storico è dell’anno 1062, anno in cui il Conte Ruggiero a seguito di uno scontro con Roberto il Guiscardo fu imprigionato nel castello di Melito irpino. Tuttavia, il castello ha con ogni probabilità origini più antiche. La forma romboidale con un corpo centrale allungato, tre torri angolari, due circolari ed una quadrata, consentono di ritenere il castello di origine longobarda. I castelli normanni hanno, al contrario, struttura quadrata, con quattro grandi torri angolari ed un cortile centrale. I Longobardi scesero in Italia nell'anno 568, ed ebbero la necessità di controllare i territori conquistati erigendo un sistema di roccaforti difensive. E di certo il castello di Melito aveva il compito di controllare la valle sottostante. Con la sua spessa muratura in pietra locale era altresì protetto da un profondo fossato, oggi non più visibile.  A breve distanza dalle mura sono invece visibili delle fosse, dove erano infissi i pali degli antichi portali. Naturalmente la struttura è stata nei secoli riadattata e modificata, anche in seguito agli incendi, agli assalti e alle guerre che l’hanno visto protagonista. Il castello di Melito rievoca tutta la brutalità e la precarietà delle epoche passate. Le sue mura sono state testimoni di assalti sanguinosi e scontri tremendi. A seguito del violento incendio del 1799, il Castello fu abbandonato per più di un secolo. Solo nel 1912, il Principe Stefano Colonna di Paliano ne prese possesso e modificò il lato occidentale del Castello che perse l’aspetto originario. Il terremoto del 1962 fece molti danni al punto che fu necessario abbattere la parte più antica, la torre quadrata ed una torre circolare. Oggi, il Castello è in totale rovina ed abbandono e presenta solo due torri circolari superstiti. Una impenetrabile messe di rovi ha invaso le strutture circostanti le mura, l’interno è per lo più crollato. Possiamo dire che oggi il Castello ha un aspetto ancor più sinistro di un tempo, specie di notte. In realtà, il destino del Castello di Melito era già segnato da tempo. Le guerre, le devastazioni, gli incendi, le pestilenze, l’incuria dei feudatari lo avevano già condannato alla condizione di spettro che poi è diventato.

Tuttavia, continua a fare parlare di se. Sembra, infatti, che non sia del tutto disabitato. Strane leggende e racconti sono sorte intorno ai ruderi abbandonati del centro storico e gli abitanti del paese riferiscono di strane visioni, di luci, di lamenti notturni e di urla strazianti. Ci hanno detto che nessuno sano di mente in paese oserebbe avventurarsi nella valle, giù al fiume di notte. E’ possibile che luoghi carichi di sofferenza, di morte, di ingiustizie, di torture e uccisioni violente restino in qualche modo segnati da negatività? Possibile che qualcosa rimanga a turbare la quiete e ne impedisca l’oblio? Naturalmente, non sono discorsi che possano essere fatti alla luce della razionalità ed ogni considerazione ha il contorno della credulità popolare ed il sapore della truculenta morbosità. 

Vogliamo raccontarvi, senza la pretesa di essere creduti o di avere scoperto qualche arcano segreto, la nostra esperienza nella vecchia Melito. 

Percorrendo la A16, uscita Grottaminarda, siamo arrivati in tarda mattinata nel paese nuovo, sul colle che domina la valle; siamo prima andati a mangiare in una rinomata osteria di inizio novecento e quindi già esistente ed attiva nel paese vecchio. Volevamo attendere, in ogni caso, che il sole si abbassasse un poco sull’orizzonte per avere luci più morbide per le foto; ma non troppo, perché serve una buona luce per esplorare un’area sconosciuta. Quindi, verso le 16.00 siamo scesi nella valle, al paese vecchio. L’area è molto desolata, non c’è nessuno. Si presenta come una grande radura con a sinistra il fiume Ufita, ed un Ponte per attraversarlo, sulla destra una grande chiesa, fortemente diroccata e quasi inghiottita dalla vegetazione, con poco discosto su una rocca il castello. 

Tra la chiesa ed il castello, quasi invisibile tra la fitta vegetazione che tutto ricopre e ingloba, c’è una grande scalinata che, costeggiando chiesa e castello, arriva in alto nella parte retrostante del castello stesso. Lasciata l’auto sul prato, cerchiamo subito di capire se è possibile entrare nella chiesa. L’ingresso è chiuso dal portale ed è comunque sbarrato da una spessa rete di “tondino” di ferro. Percorrendo pochi metri sulla scalinata centrale, tra la vegetazione si vede una porta aperta sul fianco destro che permette l’entrata. Facendo attenzione ai rovi spinosi e al terreno sconnesso, siamo riusciti a penetrare all'interno, non senza un certo timore perché lo stato dell’edificio è davvero precario; si vedono i segni di continui crolli e di un irreversibile dissesto. Il soffitto, in molte parti presenta le travi a giorno e rimane poco delle originarie decorazioni. Una grande croce, sul lato della chiesa che guarda il fiume, campeggia al centro di una grande finestra vuota. Quel che resta del pavimento si intravede appena tra i calcinacci e la vegetazione. La parte dell’abside è quasi del tutto distrutta, senza copertura e ormai alcuni alberi vi hanno trovato sede. Nel silenzio del luogo, il battito di ali di uccelli nascosti sulle strutture in alto, diventa assolutamente inquietante. Nonostante la notevole ampiezza della struttura, ci si sente a disagio, con una strana sensazione che fa desiderare di uscire al più presto. Così, dopo avere scattato una decina di foto usando il cavalletto, dal momento che dentro c’è penombra e non si può scattare a mano libera con buoni risultati, siamo subito usciti. 

Cerchiamo ora una via di ingresso al castello che è stato recintato dai Vigili del Fuoco. Ma prima vogliamo vedere come si presenta a monte, nella parte che non si vede da giù e per questo percorriamo la scalinata di pietra fino alla cima. La parte retrostante del castello è la più rovinata e dovrebbe coincidere con la parte crollata, dove c’erano le torri abbattute. Vicino insiste una torretta di cui è difficile capire funzione ed epoca. In ogni caso, non sembrano esserci varchi, così riscendiamo lungo le scale. Un buco individuato nella recinzione ci invita ad entrare. Dentro la vegetazione di rovi è così fitta che impedisce di procedere e ricordiamo anche che c’era un fossato che potrebbe nascondersi sotto le piante e costituire una pericolosa insidia. Così usciamo e ci accontentiamo di esplorarlo lungo il perimetro esterno. Giunti a valle, attraversiamo il ponte per osservare dalla opposta riva meglio tutto il colle. Torniamo in paese a dissetarci in un bar e a chiedere ulteriori informazioni. Il barista ha appese al muro delle foto d’epoca del vecchio paese e ce le mostra. Il paese era di piccole dimensioni e si sviluppava attorno ad una bella piazza a ridosso della chiesa, Piazza Vittoria, il fulcro della vita del paese. Capiamo allora che ben poco è rimasto del borgo. La morbida luce del tardo pomeriggio ci invita a tornare giù per qualche altro scatto.

LA DAMA BIANCA

Adesso, però, la radura appare molto diversa da come si era presentata al nostro arrivo, illuminata dal sole alto nel cielo. Nella profonda valle, il sole ha ormai scollinato e lunghe ombre si stendono sull’erba e sui massi, densi chiaroscuri rendono il posto molto più inquietante. Fermiamo l’auto sul limitare della riva del fiume, senza allontanarci da essa. Rimaniamo ad osservare la chiesa ed il castello, mentre il crepuscolo scende progressivamente. Non è più possibile esplorare i luoghi ne scattare altre foto. Sarà la quiete assoluta, rotta solo dai versi di non meglio identificati animali, ed il fascino del castello all’imbrunire, che ci fa rimanere ad osservarlo fino a quasi scesa la sera. E’ ora di tornare e stiamo per risalire in macchina e rimetterci sulla via del ritorno quando, amplificato dall’eco della valle, sentiamo una specie di grido non meglio identificato. Dapprima, una specie di lamento soffocato, poi più acuto. La zona abbonda di rapaci di ogni genere e lì per lì attribuiamo quel suono a qualche allocco, gufo o gheppio sulle tracce della sua preda notturna. Ma è quello che vediamo un istante dopo, o meglio quello che forse crediamo di vedere, che ci fa davvero raggelare il sangue nelle vene. Il tempo di guardarci negli occhi, con uno sguardo che intendeva “l’hai visto pure tu?”, che in una frazione di secondo siamo dentro la macchina con le sicure chiuse, i fari ed il motore acceso. Come se qualcuno avesse deciso di scherzare con le nostre coronarie tutto in una volta, ecco che vedo nello specchietto retrovisore spuntare dal ponticello un vecchio, credo un contadino della zona, che ci passa accanto e ci fa cenno di andare.  


Abbasso il finestrino e lo saluto con un cenno. Il vecchio ci dice: “meglio se andate, a quest’ora sta dint a torre, chell è nu demonio, iatevenn”. Senza chiedere ulteriori spiegazioni al vecchio, andiamo via e torniamo volentieri in paese a prendere un caffè prima di ripartire. Il barista che ci ha mostrato le foto, vedendoci turbati, dice:” ma che…l’avete vista anche voi?”. Replico:” Chi?” – “La signora…la marchesa”. A questo punto, caduto il timore di essere preso per pazzo o deriso, ordino del caffè e gli racconto tutto. Gli diciamo che non siamo sicuri di quello che abbiamo visto, ma nella finestra bassa di sinistra del corpo centrale, dove c’è una bifora, per lo spazio breve di uno o due secondi è passata, nell’oscurità, una specie di ombra biancastra, qualcosa di etereo ma visibile sullo sfondo nero dell’apertura. Eravamo in due ed abbiamo visto esattamente la stessa cosa. Sappiamo essere quasi tutto crollato in quella zona, non esserci più un camminamento e non più possibile affacciarsi alle finestre. Non era una luce, piuttosto come un pannello o un telo biancastro. Ed il barista: ”oppure una veste bianca.”. Non sembra essere sorpreso dal nostro racconto né sarcastico.  Anzi, ci dice che diverse persone hanno riferito cose simili e ci racconta una vecchia storia. Pare che nel ‘600 ci fosse una castellana di nome Porzia, la cui bellezza era inferiore solo alla sua crudeltà. Sembra che avesse dimestichezza con i veleni e la stregoneria e ne facesse largo uso con i suoi tanti giovani amanti che incontrava furtivamente, fuori e dentro il maniero. Un giorno fu scoperta dal marito, un tal Goffredo, che la fece trucidare da dei sicari dopo averla rinchiusa in una torre. Ancora oggi vagherebbe, pallida, con i capelli sciolti e l’abito candido inzuppato di sangue tra le stanze del Castello in cerca di vendetta. La si vede più facilmente nelle notti di primavera, periodo in cui pare fu assassinata.

E’ una storia tramandata oralmente, di cui probabilmente non c’è alcun riscontro documentale, ma che potrebbe essere anche vera, come spesso lo sono molte storie di paese sopravvissute all’oblio proprio grazie ai racconti tramandati dai vecchi ai giovani. Del resto le cronache medioevali si basavano proprio sui cantastorie e sulla tradizione orale. Naturalmente, la storia ha assunto i contorni della leggenda popolare e si è infarcita di credenze antiche quanto ovviamente false. Questo è tutto. Se la cosa vi incuriosisce, andate a vedere da voi stessi tenendo presente che, in ogni caso, nessuno sano di mente in paese scenderebbe all’imbrunire giù al castello. E buona caccia.

 

 

L'esplorazione è stata fatta per un tempo davvero breve, nel rispetto dei luoghi e degli eventuali cartelli di divieto presenti. Nessuna intrusione in luoghi protetti da chiusure, barriere, cancelli o in presenza di divieti è stata fatta. Nulla è stato toccato e/o prelevato. 

 

IL PRESENTE ARTICOLO NON COSTITUISCE IN NESSUN MODO UN INVITO O UN INCORAGGIAMENTO ALL'ESPLORAZIONE. I LUOGHI SONO FATISCENTI E PERICOLOSI. CHI LO FACESSE, SE NE ASSUME OGNI CONSAPEVOLE RISCHIO. AD OGNI BUON CONTO RICORDATE SEMPRE LA REGOLA "LEAVE ONLY FOOTPRINTS AND TAKE ONLY PHOTOS", LASCIATE SOLO IMPRONTE E NON PRENDETE NULLA SE NON IMMAGINI.