EX MANICOMIO DI NAPOLI LEONARDO BIANCHI

IL LABIRINTO DELLA RAGIONE

A nord di Napoli, nascosto da un altissimo muraglione, c’è un luogo che evoca nella gente della contrada antichi fantasmi. Si tratta di uno dei più antichi manicomi d’Italia, tra i più grandi per estensione. E per un curioso scherzo del destino molti di quelli che vi erano internati, e che per le condizioni mentali di malati non risultavano pericolosi e quindi non necessaria la custodia nelle nuove strutture, hanno per anni continuato ad affollare la grande salita che costeggia l’ex ospedale psichiatrico. Come fantasmi, trascinandosi appresso buste di plastica e vecchi borsoni pieni di cianfrusaglie, questa sorta di popolo di Zombie sembrava come attratto magneticamente da quel luogo cui sentiva ancora di appartenere e che reputava ormai essere casa. 

Progetto del manicomio

 

 Dott. Leonardo Bianchi


Ripercorriamo brevemente la storia di questa autentica “città dei matti”. La legge provinciale del 1865 all’art. 174 n. 10, sanciva l’obbligo per le stesse di provvedere al mantenimento dei “mentecatti poveri”. La polemica delle province con il direttore del manicomio di Aversa, Gaspare Virgilio, per il sovraffollamento del nosocomio si protraeva ormai da anni. Così tra il 1871 e il 1901 molte province, tra cui Napoli, si distaccheranno da Aversa creando propri nosocomi. L’amministrazione Provinciale di Napoli decise inizialmente di collocare i suoi ammalati alla Madonna dell’Arco di S. Anastasia, nell’ex convento domenicano trasformato in “ospizio destinato a’ deformi, a’ ciechi, a’ malandati in salute ed agli affetti da taluni mali”. In un’altra struttura, sita in località Ponti Rossi, fu anche allestita la sezione “Osservazione”, un reparto dove venivano ricoverati i soggetti per accertarne il grado e la natura della follia e di conseguenza ricoverarli in manicomio o rilasciarli. L’ospizio di Madonna dell’Arco si rivelò da subito inadatto al punto che la Provincia nel 1874 acquistò il fabbricato di S. Francesco di Sales nel cuore della città, lungo la strada dell’Infrascata, oggi via Salvator Rosa. Nonostante fossero stati fatti notevoli adattamenti, autorevoli alienisti dell’epoca, come Miraglia, osteggiarono tale struttura ritenendola inadatta; tuttavia, il manicomio dell’Infrascata aprì nel 1881. Le cose andarono male da subito. Un’inchiesta portata avanti dal governo rilevò gravi irregolarità. La relazione ispettiva denunciava apertamente la gestione economica dei manicomi Arco e Sales, inficiata da incidenti e pesanti ammanchi di denaro. Per un certo periodo le sedi furono ben cinque: S. Maria dell’Arco in S. Anastasia, S. Francesco di Sales all’infrascata, il regio ospizio SS. Pietro e Gennaro a Capodimonte, il manicomio privato Leboffe di Ponticelli e S. Francesco Saverio alle Croci. Tutte inadeguate alla realtà.  Tra il 1883 e l’inizio del 1884 si fece pressante l’idea di dotare la città di Napoli di un manicomio più grande e del tipo a padiglioni separati. Nel 1897 fu individuata l’area e iniziarono i lavori di costruzione. La struttura fu aperta nel 1909, ma completata solo nel 1910. Ai ventinove padiglioni iniziali se ne aggiunsero altri quattro adibiti alle lavorazioni, a cabina elettrica e frigorifero; trentatré in tutto. Il modello terapeutico seguito era quello ritenuto migliore dalla scienza psichiatrica dell’epoca: il malato doveva avere occasioni di svago e di lavoro al fine di essere reinserito nella società. Il manicomio aveva una biblioteca per i folli, una tipografia, una legatoria una calzoleria, un laboratorio per lo sparto e la saggina, una fabbrica di mattonelle, una falegnameria, una officina meccanica, una sartoria e tessitoria, una panetteria e una colonia agricola. Gli internati erano seguiti e guidati nel lavoro dai vari tecnici del settore specifico ed erano retribuiti sia con denaro che con tabacco. Tuttavia, l’enorme aumento del numero di richieste mise in grave crisi la struttura già nel corso della seconda metà degli anni 30.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale determinò un periodo estremamente duro e difficile, poiché la riduzione di personale sanitario e di assistenza chiamato alle armi, la riduzione di generi alimentari e di medicinali determinò notevoli difficoltà terapeutiche e gravissimi disagi ai degenti ricoverati. Nonostante la segnaletica convenzionale internazionale di protezione, la struttura fu bersaglio delle incursioni aeree nemiche. L’8 ottobre 1943 le truppe anglo-americane penetrarono nell’ospedale occupando diverse aree fino all’11 settembre 1946. Non si conosce molto delle vicende legate al periodo della ricostruzione postbellica. Certamente l’ospedale usufruì degli aiuti provenienti dal piano Marshall come sappiamo dagli interventi di riparazione dei danni subiti durante la guerra. L’ultimo ampliamento risale agli anni 50’ a partire dal quale il complesso rimase sostanzialmente come appare oggi. Con la legge 13 maggio 1978 n°180 (cd Legge Basaglia) tra alterne vicende ha continuato la sua funzione fino al progressivo abbandono. 

Il manicomio, posto ad 85 metri sul livello del mare, si estende su un’area di 220.000 metri quadri ricchissima di spazi verdi. In essa sono distribuiti trentatré edifici riuniti insieme da ampi passaggi coperti di dimensioni e di epoche diverse, che coprono una superficie di 78.000 mq. L’edificio centrale prospiciente l’ingresso principale, che costituisce la sola parte dell’originario complesso tutt’oggi ancora attiva, era adibito agli uffici amministrativi, alla direzione, alla biblioteca, ai gabinetti scientifici, all’alloggio dei medici di guardia e del personale di assistenza religioso. Alle spalle dell’edificio principale sorgevano in progressione i diversi padiglioni adibiti al ricovero degli ammalati: a destra quelli femminili e a sinistra quelli maschili, con al centro fabbricati per i servizi generali e i laboratori.  

I folli erano distribuiti in diverse sezioni individuate sulla base della natura delle patologie. Nel regolamento del 1873 sono presenti solo quattro sezioni senza specificazione alcuna. Dal 1920 l’amministrazione fu tenuta obbligatoriamente a separare “i folli cronici pericolosi da quelli acuti e guaribili, da quelli che possono essere adibiti alle lavorazioni, dai mentecatti cronici tranquilli, dagli epilettici innocui, dai cretini, dagli idioti e dagli infermi mentali inguaribili ma tranquilli”, in applicazione dell’art. 4 del Regolamento del 1909. Dunque, gli ammalati avrebbero dovuto essere divisi in sezioni differenti, allocate nei vari padiglioni di cui si componevano le strutture manicomiali.

Per quel che concerne il criterio di assegnazione dei pazienti nelle sezioni, per molto tempo venne osservato un criterio di selezione abbastanza rigido per le diverse patologie, poi progressivamente superato a causa dell’affollamento del manicomio, eccezion fatta per la VI sezione che, fin dall’epoca della sua costruzione, venne destinata ai folli dimessi dal manicomio criminale; tutte le altre subirono modifiche nel criterio di assegnazione.

Relativamente alle sezioni maschili: la I sezione ospitava infermi schizofrenici e depressi; la II sezione ospitava pazienti affetti da psicopatie dissociative ad evoluzione cronicizzante, da frenastenici cerobropatici, epilettici e distimici; la III sezione, con funzione di infermeria, ospitava infermi affetti da malattie di ordine somatico, acute e croniche, richiedenti cure internistiche e chirurgiche. La IV sezione ospitava folli affetti da tubercolosi. La V sezione ospitava soggetti schizofrenici cronicizzati, neuroluetici, epilettici, oligofrenici, depressi e qualche demente senile. La VI sezione ospitava infermi pericolosi ed impulsivi dimessi dal manicomio criminale. La VII sezione ospitava pazienti affetti da schizofrenia, frenastenia, epilettici, alcolisti, depressi e decaduti. L’VIII sezione, con funzione di preinfermeria, ospitava ammalati anziani arteriosclerotici e affetti da forme varie di schizofrenia, frenastenia e distimia. La IX sezione ospitava infermi affetti da forme di psicopatie croniche. 

Relativamente alle sezioni femminili: la I sezione ospitava degenti affette per la maggior parte da forme di distimia melanconica, forme mistiche maniaco- depressive, rare schizofrenie; la II sezione ospitava degenti affette da schizofrenia avanzata e da oligofrenia; la III sezione ospitava ammalate tranquille affette da forme morbose varie; la IV sezione accoglieva inferme affette da epilessia e oligofrenia e da decadimento mentale; la V sezione ospitava persone affette da psicopatie non specificate; la VI sezione ospitava inferme dimesse dal manicomio giudiziario e le inferme indesiderabili in altre sezioni con diagnosi e psicopatie ad ampio spettro; la VII sezione era divisa in due reparti: Infermeria A, che accoglieva persone tra ammalate acute e ammalate lungo-degenti; Infermeria B che accoglieva  tubercolotiche; la VIII sezione ospitava  inferme affette da vasculopatie cerebrali e distimie involutive; la IX sezione ospitava pazienti con psicopatie croniche di non specificata natura. 

Esplorare questa enorme struttura manicomiale abbandonata è come affacciarsi da una vecchia finestra sverniciata, sporca di polvere e fuliggine ed osservare passare lentamente i fantasmi di un epoca ormai tramontata, ma con echi e strascichi percepibili ancora oggi. Se la decadenza avesse un nome sarebbe quello di questo posto. La vegetazione rigogliosa si è impadronita di molti viali, è penetrata dentro molte strutture rendendole quasi invisibili, ha divelto finestre, pavimenti, balconi. Un folle labirinto di radici, rami e pietra. Questo rende complicato riconoscere le originarie strutture, precaria e difficile l’esplorazione. I lunghissimi e tetri corridoi, una teoria di passaggi senza fine che confondono e spaventano, sarebbero perfetti come set per un film horror splatter. Tutto è greve, penombra e polvere. L’odore di muffa, di legno marcio penetra nelle narici. La vernice scrostata cola come come sangue rappreso dalle pareti di tufo. I pavimenti ingombri di calcinacci mischiati ad una poltiglia irriconoscibile, fatta di vecchi giornali, oggetti medicali, locandine, fogli di carta e altro. In questa che sembra più una “necropoli” che qualcosa di appartenente al mondo dei vivi, hanno trovato rifugio un gruppetto di senza tetto africani. Li abbiamo intravisti, come spettri con le facce spaventate di chi si sente braccato. Uno di questi ci ha affrontato e una volta capito che non rappresentavamo una minaccia ci ha fatto vedere il suo misero rifugio. Un polveroso ripostiglio con un vecchio divano sgangherato, una coperta, un fornellino per cuocere cibi tipo quelli da camping. Magrissimo, vestiti sporchi e logori, ha detto di chiamarsi Hasan e di venire dalla Costa d’Avorio. Mi sono venuti i brividi a pensare dove fosse costretto a vivere e immaginare quanto debba essere spaventoso questo posto di notte. E’ una bella e fredda giornata invernale di sole ma la luce ed il calore qui sotto non arrivano, come ne avessero paura, cosicché sembra quasi sera. Oggi il gruppo è di undici persone (raramente siamo così tanti), ma con quattro defezioni verso l’ora del pranzo. Abbiamo deciso di esplorare il lato uomini, ed in particolare la VI sezione, quella criminale, che abbiamo riconosciuto per la torretta di guardia, o quello che ne rimane, che ha davanti (unica sezione ad averla). Abbiamo anche rinvenuto la lavanderia, una sartoria, una falegnameria, le grandi cucine con i giganteschi bollitori industriali, la tipografia. Molto mal messi ma ancora presenti molti ambulatori, la divisione chirurgica con una bella sala operatoria, la radiologia.

I luoghi non sembrano vandalizzati, comunque molto meno rispetto alla normalità degli edifici abbandonati. Non abbiamo trovato graffiti e scritte sui muri ne segni di scassinamento di scaffalature e mobilio li rimasti. 

L’impressione che ci è rimasta è di un “non luogo”, qualcosa che è fuori del tempo, cristallizzato in una sorta di bolla spazio-temporale in cui si entra, si esce e stop. Non sembra avere futuro ma solo passato e forse per questo che tutti lo abbiamo considerato prezioso e siamo coscienti del privilegio di averlo potuto vedere.

OBITORIO

LA CHIESA

VI SEZIONE UOMINI (AGITATI PERICOLOSI)

LAVANDERIA

CHIRURGIA UOMINI

IV SEZIONE UOMINI



LA DIVISA DEGLI INTERNATI

I E II SEZIONE UOMINI

LA TIPOGRAFIA

LE CUCINE


 

IL VIDEO

 

Fonte bibliografica: Archivio dell'ospedale psichiatrico di Napoli L.B.  (Carrino, Di Costanzo) 2003

ATTENZIONE

Questo reportage, frutto di più esplorazioni fatte nel tempo,  documenta lo stato di fatiscenza e degrado di uno dei manicomi più antichi e grandi d'Italia. Questo patrimonio storico, sociale e scientifico di inestimabile valore è purtroppo in completo abbandono. Al suo interno vivono più o meno occasionalmente vagabondi. In alcuni punti c'è presenza di rifiuti di ogni genere sversati in questo ultimo ventennio di abbandono. Avevamo letto di progetti di recupero, che purtroppo crediamo falliti, poiché non abbiamo riscontrato alcun tipo di protezione, dissuasione o informazione circa la volontà di riutilizzo/riqualificazione dell'area. 

IN OGNI CASO E COME SEMPRE, IL PRESENTE ARTICOLO NON COSTITUISCE IN NESSUN MODO UN INVITO O UN INCORAGGIAMENTO ALL'ESPLORAZIONE. I LUOGHI SONO FATISCENTI E PERICOLOSI. CHI LO FACESSE, SE NE ASSUME OGNI CONSAPEVOLE RISCHIO. AD OGNI BUON CONTO RICORDATE SEMPRE LA REGOLA "LEAVE ONLY FOOTPRINTS AND TAKE ONLY PHOTOS", LASCIATE SOLO IMPRONTE E NON PRENDETE NULLA SE NON IMMAGINI.