L'AREO NEL BOSCO

testo e foto di GABRIELE SORVILLO

10 MAGGIO 1984, ORE 22 una pattuglia composta da tre F-104 dell'aeronautica militare italiana, appartenente al 10° Gruppo Caccia Intercettori, si alza in volo dalla base di Grazzanise (CE) per una ricognizione notturna sul territorio del basso Lazio. Gli aerei, dopo aver lasciato la base, sorvolano in formazione per una quarantina di minuti alcuni paesi come Sparanise, Teano, Roccamonfina ed altre località del casertano dirigendosi verso Latina. Sono in stretto contatto con la torre di controllo della base di provenienza e tutto procede regolarmente … fino alle 22:45, quando la torre riceve uno strano messaggio da parte del pilota al comando della pattuglia, il Sottotenente Pasquale Pezzullo, di anni 23 di Pomezia, un messaggio che si interrompe all’improvviso: "Abbiamo...". Questa è l'unica e ultima parola pronunciata, poi cala il silenzio e il suo aereo scompare dai radar. Inizialmente, anche gli altri due piloti non risposero alle richieste della torre di controllo per poi riferire, una volta atterrati, che l'aereo del Sottotenente Pezzullo era precipitato in una zona di alta montagna, molto impervia, al confine tra Formia ed Itri, il Monte Viola. Vengono subito attivati i soccorsi ed avvisati i parenti dello sfortunato pilota. Sulla sciagura tuttavia viene mantenuto sin da subito il più stretto riserbo. La notizia viene divulgata solo ed esclusivamente dal quotidiano milanese "Il Giorno" il 13 Maggio, ben tre giorni dopo l'accaduto. 

Sulle cause dell'incidente, non è mai stata fatta chiarezza. Molti sono gli interrogativi e i punti ancora oscuri della vicenda. Come mai, in caso di guasto tecnico, il pilota non avrebbe lanciato un MAYDAY? Il suo caccia avrebbe dovuto volare ad un'altezza compresa tra gli 11000 e i 13000 metri. Perché si trovava così in basso in una zona notoriamente montuosa? Il radar di bordo non avrebbe rilevato nessun ostacolo? E poi quella parola "abbiamo..." pronunciata da Pezzullo, cosa avrebbe voluto dire? E perché parlava al plurale? Avevano forse intercettato qualcosa? A distanza di quasi 40 anni, il mistero rimane nascosto tra i numerosi resti dell'aereo che giacciono ancora lì nei boschi, sparsi in una zona amplissima a testimonianza della violenza dell’impatto. 

Il relitto dell’aereo si trova in una impervia zona di montagna ed è raggiungibile solo in parte attraverso sentieri tracciati. Da un certo punto in poi si va alla cieca, tra fitti boschi di faggi e roverelle, attraversando deciso declivi, resi scivolosi da uno spesso e denso strato di foglie secche; questo strato nasconde il terreno rendendolo insidioso.

Una mattinata d'autunno decido di andare in cerca del relitto dell’aereo e solo dopo qualche ora riesco, non senza difficoltà, a raggiungere il luogo dell'incidente. Dopo una lunga ricerca nel bosco, non lontano dalla vetta, scorgo da lontano qualcosa. Mi avvicino con estrema cautela destreggiandomi tra gli alberi e il terreno reso scivoloso dalle foglie. Un brivido mi pervade: si materializza davanti a me l'impennaggio di coda del caccia. Sul rottame grigio appare ancora l'immagine del cavallino nero rampante, emblema dell'eroe nazionale del volo Francesco Baracca.  Tracciando il percorso con il GPS, proseguo la ricerca per altre due ore e mezza; la violenza dell'impatto ha scaraventato i pezzi in un raggio di circa 200 metri. A distanza di tanti anni i resti si presentano ancora in un ottimo stato di conservazione; parti della fusoliera, un motore, un'ala incastrata tra gli alberi, un serbatoio, tubature, cablaggi e addirittura una ruota sono quel che rimane di una delle tante sciagure dell'aviazione italiana cadute nell'oblio.