LA RUOTA DEGLI ESPOSTI
La Congregazione della Santissima Annunziata nacque nel 1304 per volere di Nicolò e Jacopo Scondito, due nobiluomini napoletani, frutto pare di un voto per una grazia ricevuta dalla madonna Annunziata. All’inizio consisteva in una piccola chiesa realizzata in una zona detta “sopra mura”, fuori della cinta muraria cittadina, dove adesso c’è Via Postica Maddalena. Nel 1343, grazie al munifico intervento della regina Sancia di Majorca, moglie di Roberto d'Angiò, il complesso occupò l’area dove si trova oggi e fu notevolmente ampliato con l’aggiunta di un ospedale e di una più grande chiesa. L’Annunziata fu ulteriormente ampliata dalla Regina Giovanna II nel 1433. La congregazione era sostenuta dalle famiglie nobili di Napoli e nel tempo arrivarono cospicue donazioni, consistenti anche di importanti Feudi come quello di Montevergine. I governatori della Casa Santa dell’Annunziata, resisi conto che il mantenimento delle numerose opere pie (orfanotrofio, ospedale, educandato) richiedeva mezzi notevoli e sperando di trarre buoni utili dall’esercizio dell’attività bancaria, istituirono, nel 1587, il Banco Ave Gratia Plena o Banco della Santissima Annunziata. Nel 1702, una generalizzata crisi dei monti napoletani portò al fallimento del Banco Ave Gratia Plena.
L'ente ha, comunque, costantemente perseguito nel corso dei secoli l'originario fine statutario. L’Annunziata è nata come istituzione assistenziale per la cura dell'infanzia abbandonata ed ha perseguito principalmente questo scopo fino allo scioglimento, avvenuto con la Legge regionale n.65 dell'11 novembre 1980, applicativa del D.P.R. n.616/77.
Al suo culmine, il complesso comprendeva la chiesa, l’ospedale, l’orfanatrofio ed un "conservatorio" per le ragazze povere o prive di famiglia, che qui trovavano rifugio ed una piccola dote per potere trovare marito.
Fu Sancia de Maiorca che fece costruire la “rota dei gittatelli”, conosciuta come la “Ruota degli esposti”. All'esterno, al di sopra della ruota, vi era un puttino di marmo con la scritta: "O padre e madre che qui ne gettate / Alle vostre limosine siamo raccomandati". Ancora oggi si può ammirare il foro di ingresso, oggi otturato con un pannello di marmo recante la scritta 27 giugno 1875 (data di chiusura e fine dell’uso della rota), praticato sulla parete esterna dell’ospedale collegato all’interno ad una ruota in legno e girevole, come quelle in uso nei monasteri di clausura. La nuova ruota, tuttavia, non serviva per passare cibo ed oggetti alle monache senza che vi fosse contatto con l’esterno, ma permetteva alle madri che volevano abbandonare il loro bambino di farlo in sicurezza e segretezza, dando al contempo una chance di sopravvivenza al neonato. Di solito ciò accadeva di notte. Al riguardo, ci sono delle bellissime illustrazioni, come la tela di Gioacchino Toma: “la guardia alla ruota dei trovatelli”, e la descrizione, impressionante, fatta da Francesco Netti:” È l’interno della camera dove si ricevono i fanciulli. Si sta facendo giorno, la luce del lume ad olio comincia ad impallidire. Le due donne, della infima classe del popolo, che fanno la guardia si sono addormentate sulle sedie e hanno freddo. La notte è stata tranquilla; non è arrivato che un solo fantoccio fasciato che è stato buttato di traverso sopra un letto immenso, dove ce ne starebbero ben venti. Il bambino ha la bocca aperta e strilla ma non giunge a svegliare le due donne…. Nel fondo c’è la ruota di legno, simile a quella all’entrata dei monasteri di monache soggetta a clausura. Nella ruota sono disposti dei cuscini sudici che formano una specie di culla dove si adagia il bambino; e poi vi sono due fori bianchi, pei quali da dentro si può vedere chi chiama o batte dal di fuori. Non so perché ma questi due fori bianchi sono veramente sinistri; sembran due occhi - due occhi lucidi di gatto, brillanti nelle tenebre.”
Una volta all’interno della struttura venivano lavati e battezzati. Venivano, poi, chiamati "figli della Madonna", "figli d'a Nunziata" o "esposti" e godevano di particolari privilegi.
La Napoli dei secoli passati, al pari di quella odierna, era una città capace di abissi profondi e lampi
di luce brillante, facendone uno dei luoghi più controversi e affascinanti della terra. Alla tanta miseria del popolo minuto corrispondevano tante e diverse realtà di compassione e generosità
uniche per l’epoca che facevano da contraltare e anche da incubatrici per future istituzioni. L’Annunziata era una di queste. I suoi ombrosi corridoi e gli immensi saloni raccontano storie di
abbandono, di rinunzie, di dolore, ma anche di tanta speranza. Molti cognomi, ancora oggi in uso, sono stati coniati qui e rivelano la provenienza originaria. Uno di questi, il più famoso e
diffuso, è Esposito che deriva da Expositum, gli “esposti”, i bambini che qui venivano lasciati alla pietà della congregazione. Nell’Archivio degli esposti sono annotati con precisione
tutti gli arrivi con le date, l’orario, la descrizione dei piccoli e gli eventuali oggetti con cui erano stati lasciati, il nome e cognome dato all’esposto, il numero progressivo di entrata e la
firma del segretario generale dell’istituto. Grazie a questo, si può ricostruire la storia di migliaia di bambini napoletani. Un esempio si tutti: Vincenzo Gemito. Il grande scultore era un
trovatello, un figlio della madonna che è simbolo di riscatto di intere generazioni di reietti. Nella sua opera è presente tutta la sofferenza e l’alienazione provata nella sua travagliata
vita. Ad alcuni di loro le madri appendevano al collo un fagottino con dentro un misero corredo, di solito costituito da crocifissi, medagliette, figurine
sacre, frammenti di corallo e a volte un bigliettino (cartula) con annotati i veri dati anagrafici.
Questi “signali”, ovvero gli oggetti trovati col bambino al momento dell’abbandono, avrebbero consentito ai genitori di riconoscerlo in caso di una futura richiesta di restituzione. Infatti, sovente si ritrovava la metà di una medaglia, di una carta da gioco, di una moneta, di un Santino o di una fotografia perché l’altra è trattenuta dai genitori come prova di identificazione al momento dell’eventuale riconsegna; ma ciò avveniva molto di rado e questi oggetti finivano per rappresentare solo un ricordo che la madre lasciava al figlio.
Queste foto d’archivio illustrano alcuni documenti tratti da una filza di proietti del 1872. Si riconoscono diverse cartule e i “signali” spezzati (medaglietta, foto) per un eventuale futuro ricongiungimento.
All’atto di entrata dell’istituto si appendeva al collo dell’esposto, per garantire la sua identità personale, una medaglietta o merco riportante su un lato il numero di matricola e lettera, sull’altro l’immagine della Madonna. La stampigliatura avveniva con l’uso del torchio. Le medagliette più antiche erano in piombo, poi si passò a quelle in rame destinate agli esposti legittimi e stagno per gli illegittimi. Il brefotrofio di Napoli era l’unico che non imponeva il marchio a fuoco sulla pelle, praticato generalmente sotto il tallone dietro la spalla degli esposti.
Il complesso è un luogo dal fascino unico che vale assolutamente la pena visitare. Si accede attraverso il cinquecentesco arco di marmo commissionato a Tommaso Malvito, con portale ligneo di Pietro Belverte e Giovanni da Nola. Nella lunetta interna è presente un affresco di Belisario Corenzio raffigurante l’Annunciazione. La corte interna è impreziosita da una bella fontana ottocentesca. Sulla sinistra della corte si sale al Salone delle Colonne; qui una volta all’anno si svolgeva il cd “Rito del Fazzoletto”. Le giovani della struttura in età da marito venivano presentate ad eventuali pretendenti che lanciavano alla prescelta un fazzoletto. Se la ragazza lo avesse raccolto, avrebbe accettato di sposare il pretendente. Il matrimonio si celebrava seduta stante e la ragazza lasciava immediatamente la struttura. Per lo più i pretendenti andavano lì per cercare una serva più che una moglie e accaparrarsi la piccola dote della esposta. Queste sventurate nulla sapevano delle persone che accettavano in sposo e le cose non andavano sempre bene. Infatti, frequentemente le ragazze tornavano indietro all’Annunziata.
Alle spalle del Salone delle Colonne vi è una cappella interna detta “delle suore”, attualmente non visitabile, che originariamente ospitava la statua cd. della “Madonna delle Scarpette”, ora posta dentro la vicina chiesa.
La statua è costruita come una enorme bambola e, quindi, può articolare in diverse posizioni.
Indossa una veste preziosa intrecciata da fili dorati.
I capelli della Madonna sono capelli veri tradizionalmente donati dalle ragazze dell’istituto.
Veniamo al curioso nome che richiama un mistero che la circonda. Le sue scarpe dorate si consumano e questo ha fatto nascere una leggenda. Ogni notte la Vergine uscirebbe dalla teca e si aggirerebbe per la città a confortare le persone che soffrono e questo farebbe consumare le scarpe.
Il 25 marzo di ogni anno c’è il rito del cambio delle scarpette e quelle consumate vengono affidate a famiglie con persone affette da gravi malattie.
Dalla destra della corte si accede al cd. Succorpo vanvitelliano.
Un tempo cripta della chiesa superiore, fu dal Vanvitelli trasformata in una chiesa indipendente che garantisse le celebrazioni durante il restauro della chiesa madre che fu quasi completamente distrutta da un incendio nel 1757. Il Succorpo è posto sotto il transetto della soprastante Basilica dell’Annunziata Maggiore. È a pianta circolare, impreziosito da otto grandi colonne e sei nicchie che alloggiano una serie di statue un tempo presenti nella soprastante chiesa.
La basilica della Santissima Annunziata Maggiore ha un impianto a croce latina con navata unica e sei cappelle laterali, con quarantaquattro colonne corinzie ed una cupola di ben sessantasette metri d’altezza. Della chiesa originale rimangono la Cappella Carafa e la sacrestia, che fu affrescata da Belisario Corenzio con temi legati alle sacre scritture. I cori lignei sono opera di Salvatore Caccavallo e Girolamo D’Auria.
Per visitare il complesso vi suggeriamo una guida esperta del sito:
MANALLART
☎️ 327-0904928