Ci sono luoghi in Italia dove si perpetuano riti antichissimi, tanto complessi nel loro significato che è impossibile ricostruirne con certezza l’origine. Vogliamo raccontarvi di una notte magica in cui tradizione, fede, superstizione e folklore si fondono completamente. Cicciano è un piccolo borgo alle porte di Napoli con una storia molto antica. In occasione della festa patronale di Sant'Antonio Abate, che cade il 17 gennaio, inizia un periodo di festeggiamenti di una settimana che ha mantenuto molto delle sue tradizioni originarie. Dall'accensione dei Falò alla benedizione rituale degli animali, ai balli sfrenati di piazza al ritmo delle tammorre e delle castagnole; il paese diventa un unico sfrenato corteo, un'unica grande casa.
La festa di Sant’Antonio è celebrata in molti borghi, con alcune, talvolta marcate, differenze. Data la sua storia secolare, le contaminazioni sono state tante e nella festa si sono innestati usi e folclore provenienti da altri riti. Innanzitutto, va ricordato che la ricorrenza cade in un periodo poco dopo il solstizio invernale (il natale) e prossimo al carnevale. E molti sono gli elementi in comune ad esempio con il capodanno o lo stesso carnevale: la rinnovazione, bruciare mobilio vecchio e materiale di scarto, oppure i carri e le manifestazioni farsesche (“Per Sant’Antuono, maschere e suon”). E’ difficile separare l’elemento religioso puro dalla credenza popolare e dal folklore.
Per quanto riguarda la benedizione degli animali, rituale piuttosto singolare, c’è chi ritiene essere la figura di Sant'Antonio associata agli animali per il fatto dell’essere gli appartenenti all'Ordine Antoniano gli unici a potere allevare maiali nei centri abitati. E’ tuttavia il fuoco l’elemento più caratteristico della festa legata al santo, comune a tutte le celebrazioni del santo. In Sardegna la festa di Sant'Antonio Abate è chiamata proprio “la festa del fuoco” e Sant'Antonio è il patrono degli ustionati; non a caso il virus dell’herpes zoster, che provoca bruciori lancinanti, è volgarmente detto “il fuoco di sant'Antonio”. Il fuoco dei “cippi” accesi nelle piazze e nei cortili privati, tuttavia, richiama delle tradizioni che affondano le radici nella passato remoto del borgo. E’ necessario tratteggiare brevemente la storia di Cicciano.
Cicciano con al centro il suo nucleo originario
E’ noto che nell’alto medioevo, precisamente nel 1292, in questa zona si insediarono i Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. La commenda fondò una cittadella fortificata con tanto di fossato a protezione. Tale cittadella era inizialmente formata da un castello fortificato cui attorno si sviluppò un abitato, secondo lo schema più classico del borgo medioevale. Ma il “Castrum” stesso era in realtà un piccolo villaggio, al cui interno c’erano il palazzo della Commenda, le prigioni, la Chiesa di San Pietro Apostolo ed un iniziale nucleo di abitazioni private. Al Castello si accedeva da un’unica grande porta detta “Ianua Magna” (che in latino vuol dire proprio grande porta) posta sul lato meridionale attraverso un ponte levatoio che permetteva di passare sul fossato circondante le mura. Naturalmente, attraverso i secoli e le commende succedutesi Cicciano si espanse e si trasformò. Il borgo aveva come autorità suprema il Commendatore il quale nominava il Capitano che era l’autorità di polizia, l’arciprete e i cappellani (il commendatore era anche una autorità religiosa) e gli amministratori scelti dal popolo. L'abitato che si era sviluppato attorno al castello nel tempo fu suddiviso in dieci contrade denominate: Ponte vecchio, La Morata, Casale Novo, Curano, Li Vinti, Li Marenda, Palmentella, Rosci, la Plaza e li Sappierti. La popolazione aveva le sue rappresentanze: l’assemblea popolare che si riuniva nella zona dove oggi c’è il monumento a Mazzini (allora largo delle teglie per la presenza di due grandi alberi di Tiglio), il Reggimento che aveva funzioni amministrative presieduto dal Sindaco che aveva anche il compito di rappresentare il popolo davanti alle autorità generali. Questa struttura è durata fino al 1806, anno in cui fu soppressa la feudalità per opera di Napoleone.
Un’antica tradizione in vigore a Cicciano era la “festa del Ceppo”. La cerimonia si svolgeva il 1 gennaio di ogni anno nella sala magna del Castello. Vi era prima un rituale scambio di doni con la città di Nola ed altre limitrofe. Apriva il corteo il “Baiulo” della Città di Nola con i doni per il Commendatore. Poi, la Commenda di Cicciano ricambiava il dono con ventuno carlini d'argento. La consegna del ceppo avveniva alla presenza dell'intera Comunità appositamente convocata per l'occasione al Castello. Il ceppo veniva posto nel grande camino della Sala Magna ed acceso seguendo un antico rituale tramandatosi nel tempo.
A Cicciano ancora oggi sono evidenti le tracce del passato, sia nella struttura urbanistica che nella toponomastica.
La cittadina ha come nucleo centrale il Castrum originario e tutti i quartieri disposti a raggiera che in alcuni casi conservano l’originario nome, come Li Marenda, nella parte nord prossima alla fascia collinare che sovrasta Cicciano.
Ed è proprio in tale contrada che si celebra la festa di Sant’Antonio, dove ubicata la chiesa omonima che bisogna percorrere tre volte in giro come buon augurio. Con ogni probabilità anche il rituale del ceppo è sopravvissuto mescolandosi nella festa patronale.
LA CHIESA DI SANT'ANTONIO ABATE LA CLASSICA ICONOGRAFIA DEL SANTO CON AI PIEDI IL MAIALINO
E che la festa di Sant'Antonio sia qualcosa che trascende il religioso è evidente a tutti. La magia di questa notte ha qualcosa di ancestrale. Un rito primordiale scandito dalle tammorre e dalle danze sfrenate attorno ai fuochi. Si canta, si balla, si beve e si mangia. Visioni di tribù nomadi che si scaldano dal freddo del deserto, di orde di guerrieri che festeggiano la vittoria. La musica sembra uscire dalle viscere stesse della terra, tanto penetra nei movimenti. E che musica! Per l’occasione arrivano le migliori “paranze” e l’atmosfera si fa ipnotica. La paranza di Pomigliano di Marcello Colasurdo, quella di Somma Vesuviana di Pino Iove, solo per citare alcune delle più famose, si alternano sul palco allestito davanti alla Chiesa di Sant'Antonio. La piazza stessa diventa una vorticosa scia, accompagnata dalle voci e dal ritmato delle castagnole delle persone affacciate ai balconi, dagli usci delle botteghe. La terra chiama, il sangue chiama. I campi, le botti piene di mosto, il grano, il sole basso del tramonto, il ciclo delle stagioni, nascita e morte…tutto condensato in un rito autentico e senza tempo che si fa beffe della modernità.
MARCELLO COLASURDO E LA PARANZA DI POMIGLIANO
PINO IOVE
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