TIPOLOGIA: ex ospedale pischiatrico
STATO DEI LUOGHI: molto fatiscente
MOTIVO ABBANDONO: dismissione manicomi
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© NOVEMBRE 2014
L’ex Manicomio di Volterra ha avuto molti nomi: Ospizio di Mendicità (1884); Asilo dei Dementi (1888); Frenocomio di San Girolamo (1902); Ospedale Psichiatrico di Volterra (1934), Consorzio Interprovinciale dell'Ospedale Psichiatrico di Volterra (1963). Nasce nel 1884 dalla trasformazione dell’ospizio di mendicità per i poveri. Nel 1896 l’ingegner Luigi Filippo Allegri ebbe l’incarico dall’allora presidente Augusto Caioli di predisporre il progetto per un vero e proprio manicomio. Nell’aprile del 1900 la Congregazione di carità decise di affidare l’incarico di Direttore dell’Asilo dei dementi all’illustre Psichiatra Luigi Scabia, che cercò da subito di stipulare nuove convenzioni con la provincia di Porto Maurizio (oggi Imperia) per trasferire i malati di questa provincia a Volterra. E nel 1902 furono trasferiti dal manicomio di Como dove erano custoditi a quello di Volterra con un treno speciale. Nel 1931 i malati provenivano da svariate province: Pisa, Livorno, La Spezia, Savona, Imperia, Viterbo, Nuoro, Rieti e Roma.
Le presenze medie giornaliere passarono dalle 150 del 1900 al loro massimo di 4.794 nel 1939. L’aumento dei ricoverati rese necessaria la costruzione di nuovi padiglioni per accoglierli. I padiglioni venivano battezzati con i nomi dei più celebri studiosi e alienisti del tempo e tutt’oggi sono conosciuti con questi nomi: il padiglione Kraepelin, il padiglione Krafft-Ebing successivamente intitolato a Luigi Scabia; dal 1926 al 1935 vennero portati a termine i padiglioni Charcot e Ferri per i pazienti “semi agitati e agitati”.
Il Ferri era il famigerato reparto criminale dove venivano ospitati i pazienti pericolosi o presunti tali.
Nel 1933 fu istituita una moneta speciale interna per l’uso dei ricoverati. Luigi Scabia andò in pensione nel 1934 e morì poco dopo. Seguirono gli anni difficili della guerra e il crollo del numero dei ricoverati. Nell’immediato dopoguerra si susseguirono amministrazioni straordinarie caratterizzate da problemi di gestione. Nel 1948 ci fu la creazione di una sezione medico-psicopedagogico, destinata alla rieducazione dei minorenni. A tale scopo vennero utilizzati i padiglioni Bianchi e Chiarugi, gli ultimi costruiti (tra il 1936 e il 1937). La direzione venne affidata ad un funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia.
All’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra fino al 1963 veniva applicata senza riserve la legge n. 36 del 1904, strutturando così un rigido custodialismo all’interno dell’Ospedale. Questo accadeva anche sotto la direzione di Scabia, nonostante le pratiche del "no-restrainct" e dell'"ergoterapia".
Si rafforzarono sempre più il regime poliziesco e il verticismo organizzativo: “la struttura sanitaria e assistenziale era di tipo gerarchico, piramidale dove ognuno era responsabile delle proprie azioni solo nei confronti delle persone da cui dipendeva direttamente. Era il primario che distribuiva gli ordini a tutto lo staff: gli infermieri eseguivano gli ordini e i pazienti li subivano. Non c’era nessun tipo di rapporto tra lo staff tecnico e i pazienti che venivano strumentalizzati. Il clima era carcerario”. Gli infermieri venivano chiamati “guardie” o “superiori”, le finestre dei reparti erano protette da sbarre che di notte venivano chiuse a chiave. Le lettere che i pazienti scrivevano ai familiari, durante la loro degenza in ospedale, non venivano consegnate alle famiglie, ma semplicemente raccolte nelle cartelle cliniche.
Dal 1963 si iniziarono i passi verso una riforma per arrestare il rigido regime che si era instaurato. Le necessità erano quelle di: rompere il verticismo, sensibilizzare il personale; stabilire delle regole di vita dei pazienti decise in modo comunitario in base alle singole situazioni. Nel 1977 all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra erano ancora ricoverati 630 degenti”. Nel 1978, con l’entrata in vigore della legge n.180, il manicomio venne progressivamente chiuso ed oggi è in completo stato di abbandono. In seguito venne pubblicato il libro “Corrispondenza negata”, epistolario contenente tutte le lettere originali ed integrali scritte dai ricoverati e mai spedite alle famiglie. Queste lettere sono un patrimonio inestimabile di conoscenza, testimoniano la vita che si svolgeva nel manicomio ed il tipo di pazienti che vi finivano. Molti al suo interno avevano una storia assai bizzarra. Il più famoso è sicuramente Ferdinando "Oreste" Nannetti.
FERDINANDO "ORESTE" NANNETTI
Ferdinando Nannetti, conosciuto come Oreste, nome con cui egli stesso si faceva chiamare, nacque a Roma il 3 ottobre 1927 da padre ignoto e da Concetta Nannetti. Fu rinchiuso a dieci anni in un ospedale psichiatrico e, dopo essere stato rilasciato, fu di nuovo ricoverato a Roma per un oltraggio a pubblico ufficiale e poi spostato nel 1958 a Volterra dove vi è rimasto fino alla morte avvenuta il 24 gennaio 1994.Fu seppellito nel cimitero del manicomio. Scrisse molte lettere a parenti o persone immaginarie firmandosi spesso come Nanof, Nof o Nof 4; tali iniziali stavano ad indicare il suo nome: Oreste Ferdinando Nannetti e quattro era il numero di matricola che gli era stato attribuito all’entrata nel manicomio. Era rinchiuso nel padiglione Ferri perché ritenuto schizofrenico pericoloso e nella sua permanenza al Ferri incise sul muro esterno dell’edificio una serie di graffiti con la fibbia della cintura, una storia con raffigurazioni lunga circa 180 metri e alta due, di difficile interpretazione. Oggi i graffiti sono deteriorati e molti sono andati distrutti. Può essere definito un Van Gogh dei graffiti, sicuramente un'artista d'avanguardia dell'arte murale.
Il manicomio disponeva anche di un proprio cimitero (i ricoverati non potevano essere sepolti insieme ai civili), anch'esso completamente abbandonato ed in stato di degrado. Completamente lasciati a sé stessi in vita e anche nella morte, date le condizioni in cui versa il cimitero, e a cui non è stata concessa nemmeno una degna sepoltura. Sembra che l’oblio a cui erano state condannate queste persone in vita le abbia seguite anche nella morte. Luigi Scabia, che fu Direttore del Manicomio fino al 1934, è stato seppellito, per sua volontà, in questo cimitero.
Il complesso è allocato su una collina con boschi lussureggianti che nascondono la vista degli edifici completamente. Per questo trovare la via non è semplice. Partendo dall’ex convento che divenne ostello di mendicanti, originario nucleo del manicomio ed oggi albergo gestito dalle suore e percorrendo le strade che costeggiano il bosco si incontrano i viali di accesso al complesso, oggi seminascosti dalla vegetazione e sbarrati da reti e blocchi di cemento. Inerpicandosi nel bosco con l’aiuto del gps troverete man mano le varie strutture: una vecchia stazione di servizio per automezzi con la pompa di benzina, una sorta di colonia di lavoro con campi sportivi e laboratori e poi un reparto medico di degenza più moderno.
Ma il nostro obbiettivo sono gli edifici più antichi, il vero cuore di questo complesso, in special modo il famigerato padiglione FERRI. Lo raggiungiamo dopo aver vagato per un poco nella fitta boscaglia. Ce lo siamo trovato davanti col suo aspetto austero e severo, quasi ci sconsigliasse di proseguire oltre. La tensione sale; non sappiamo ancora se troveremo un modo di entrare: tutte i finestroni bassi sono chiusi da cancellate, le porte chiuse o murate.
Fortunatamente troviamo uno squarcio in un muro già riparato con grossi mattoni con la scritta poco invitante WELCOME TO HELL, benvenuti all’inferno. Ed in effetti la sensazione è proprio quella di entrare in un vero e proprio girone infernale. Percorrendo gli oscuri corridoi del Ferri si prova una profonda angoscia. Tutto assomiglia ad un carcere di massima sicurezza e nulla richiama un luogo di cura e recupero. Non è difficile immaginare la tensione, le urla dei pazienti “agitati” a cui questo padiglione era destinato, l’acre odore di sudore ed escrementi che spesso non venivano rimossi dal pavimento o dai letti.
Uscire dal Ferri ha il sapore di una scarcerazione. Oggi tutto giace nell’inquietante silenzio e decadenza. I padiglioni hanno assunto un aspetto ancor più sinistro di quello che avevano quando erano in funzione, avviluppati in una rigogliosa vegetazione cresciuta ovunque, vittime di crolli e fessurazioni. Tutta la collina è un gigantesco monumento alla follia, all’abominio e all’ipocrisia umana. L’ex manicomio di Volterra è una muta testimonianza dell’inferno che gli internati vivevano, della paura che molti provavano nel mostrare i sintomi di una depressione o accenni di schizofrenia o più semplicemente ad esporre le proprie idee politiche o morali, pena l’internamento. In questo luogo non ci finivano solo persone con patologie psichiatriche, ma molto più spesso persone disadattate, alcolizzate o con disturbi diversi dalla malattia mentale come sindromi genetiche o autismo. Più che un ospedale dove essere curati era un orribile carcere tomba, dove si veniva completamente annientati e dimenticati.
L'esplorazione è stata fatta nel rispetto dei luoghi e degli eventuali cartelli di divieto presenti. Nessuna intrusione in luoghi protetti da chiusure, barriere, cancelli o in presenza di divieti è stata fatta. Nulla è stato toccato e/o prelevato.
IL PRESENTE ARTICOLO NON COSTITUISCE IN NESSUN MODO UN INVITO O UN INCORAGGIAMENTO ALL'ESPLORAZIONE. I LUOGHI SONO FATISCENTI E PERICOLOSI. CHI LO FACESSE, SE NE ASSUME OGNI CONSAPEVOLE RISCHIO. AD OGNI BUON CONTO RICORDATE SEMPRE LA REGOLA "LEAVE ONLY FOOTPRINTS AND TAKE ONLY PHOTOS", LASCIATE SOLO IMPRONTE E NON PRENDETE NULLA SE NON IMMAGINI.
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